"C'era una roccia, uno sperone altissimo che saliva dritto e acuminato dallo sfasciume disseminato lì intorno. Era spaccato in due da una fenditura che lo trapassava per tutta la sua altezza. Nell'ombra nera della fenditura era sospeso un sottile fascio di luce che dava forma a un qualcosa di grigio e d'argento. Il tagil mi ha fatto segno e io sono andato a vedere da vicino. E quando ho varcato la soglia di quella specie di tabernacolo d'ombra, ho alzato una mano verso l'argento e ho toccato una fogliolina di ulivo.
Il tronco era osso pietrificato, un grosso femore venato e corroso, i rami erano stecchi contorti come erica dopo un incendio. Ma le foglie erano foglie d'ulivo. Venti, trenta, non di più. Verdi e argento, come devono essere: semplici, normali. Conosco gli ulivi.
Cosa si prova a toccare un ulivo nel mezzo di un deserto a duemila chilometri dal mare più vicino? Un ulivo che non dovrebbe essere lì, ma che invece c' è, e c' è da qualche millennio probabilmente. […]
Io ho provato sgomento. Perché, ho pensato, non è bene che una cosa che vive duri troppo a lungo, che duri oltre il tempo e l'epoca che spetta a ciascuna cosa. Ora quest'ulivo vive nel dolore, ho pensato, in un tempo che non è il suo. Ha le sue radici nella solitudine.
E ho provato paura. E ho pensato ancora: non è bene che questo albero sia qui, non è affatto bene che disorienti il deserto e la sua perfetta semplicità con il disordine della sua presenza. Non sono per niente contento di averlo visto. Sbagliavo, ma non potevo saperlo"
Il tronco era osso pietrificato, un grosso femore venato e corroso, i rami erano stecchi contorti come erica dopo un incendio. Ma le foglie erano foglie d'ulivo. Venti, trenta, non di più. Verdi e argento, come devono essere: semplici, normali. Conosco gli ulivi.
Cosa si prova a toccare un ulivo nel mezzo di un deserto a duemila chilometri dal mare più vicino? Un ulivo che non dovrebbe essere lì, ma che invece c' è, e c' è da qualche millennio probabilmente. […]
Io ho provato sgomento. Perché, ho pensato, non è bene che una cosa che vive duri troppo a lungo, che duri oltre il tempo e l'epoca che spetta a ciascuna cosa. Ora quest'ulivo vive nel dolore, ho pensato, in un tempo che non è il suo. Ha le sue radici nella solitudine.
E ho provato paura. E ho pensato ancora: non è bene che questo albero sia qui, non è affatto bene che disorienti il deserto e la sua perfetta semplicità con il disordine della sua presenza. Non sono per niente contento di averlo visto. Sbagliavo, ma non potevo saperlo"
(Maurizio Maggiani, Il viaggiatore notturno, Feltrinelli, 2005)
In tanti a Pontremoli, come l’ulivo dell’Hoggar, hanno le radici dolorosamente piantate nella solitudine, in un ordinato deserto fatto di mediocrità, rancori, divisioni, miopie e piccole arroganze. Quante volte, sgomenti, abbiamo pensato che quelle persone, come foglie di ulivo attaccate ad un tronco che in tempi migliori emergeva da terreno fertile, non meritano di sopravvivere nell’attuale deserto pontremolese? Che a questa epoca spetti solo sabbia e vento?
Sbagliavamo, ma non potevamo saperlo.
Quelle venti, trenta foglie, forse molte di più, sono il miracolo del deserto, i loro rami stecchi come erica dopo l’incendio sopravvivono in silenzio al lungo deserto sociale.
Sono quelli che amano la loro famiglia senza giudicare quella degli altri. Che silenziosamente insegnano la dignità ai figli, tergono lacrime, ospitano stranieri nelle loro case, imboccano anziani senza chiedere niente in cambio.
Sono quelli che rifiutano il conservatorismo perbene della città nobile e delle radici cristiane.
Sono coloro che cercano di offrire un’oasi refrigerante nel deserto, spendendo gratuitamente cuore e tempo in cinema, botteghe, centri giovanili, settimanali, bande, siti, associazioni, consapevoli di ottenere in cambio feroci critiche anziché pacche sulle spalle.
Sono quelli che non vogliono bussare a nessuna porta.
Sono quelli che quando tornano da lontano non vestono i panni del messia salvifico e non ostentano le proprie fortune e la propria carriera.
Sono poco visibili. Scelgono spesso un basso profilo. La politica, li tratta con sufficienza perché li ritiene incapaci di attirare consenso, ma in fondo in fondo li teme. In molti li detestano per la loro perseveranza nel rompere il comodo muro dell’individualismo.
Foglie di ulivo nel deserto, disorientate con il disordine della vostra presenza la piatta semplicità del deserto sociale. Andate oltre il tempo e l’epoca che vi spetta. E forse un filo d’erba spunterà nuovamente dalla sabbia.
Sbagliavamo, ma non potevamo saperlo.
Quelle venti, trenta foglie, forse molte di più, sono il miracolo del deserto, i loro rami stecchi come erica dopo l’incendio sopravvivono in silenzio al lungo deserto sociale.
Sono quelli che amano la loro famiglia senza giudicare quella degli altri. Che silenziosamente insegnano la dignità ai figli, tergono lacrime, ospitano stranieri nelle loro case, imboccano anziani senza chiedere niente in cambio.
Sono quelli che rifiutano il conservatorismo perbene della città nobile e delle radici cristiane.
Sono coloro che cercano di offrire un’oasi refrigerante nel deserto, spendendo gratuitamente cuore e tempo in cinema, botteghe, centri giovanili, settimanali, bande, siti, associazioni, consapevoli di ottenere in cambio feroci critiche anziché pacche sulle spalle.
Sono quelli che non vogliono bussare a nessuna porta.
Sono quelli che quando tornano da lontano non vestono i panni del messia salvifico e non ostentano le proprie fortune e la propria carriera.
Sono poco visibili. Scelgono spesso un basso profilo. La politica, li tratta con sufficienza perché li ritiene incapaci di attirare consenso, ma in fondo in fondo li teme. In molti li detestano per la loro perseveranza nel rompere il comodo muro dell’individualismo.
Foglie di ulivo nel deserto, disorientate con il disordine della vostra presenza la piatta semplicità del deserto sociale. Andate oltre il tempo e l’epoca che vi spetta. E forse un filo d’erba spunterà nuovamente dalla sabbia.
(by Ottavio)
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