Mi ricordo, prima di emigrare in Pianura, i falò. Immutabili nella loro perfezione, sempre così belli e sapientemente preparati che solo il tempo cattivo poteva rovinarli. Con le loro fiamme per pochi minuti coloravano in maniera unica e irripetibile le case sul Magra, il Castello, la Crësa e il Campanone. E scaldavano il cuore della gente, che nel rito dell’accensione della pira al suono della campana sentiva più forte l’appartenenza alla propria terra e traeva, dall'altezza della vampe, auspici per il futuro sperando che le faville, salendo al cielo e ricadendo sui tetti portassero con sé il lavoro per i giovani, la salute per gli anziani, il progresso e la prosperità per Pontremoli.
Un paio d’anni fa, durante le ferie d’agosto, venendo al mercato ci rimasi male. Sul Magra, poco lontano dal teatro di uno dei due falò, vidi grande un buco che andava sotto la ferrovia e la collina sventrata. Mi dicevano che costruivano un sottopasso. Per lo sviluppo dell’Ospedale e delle frazioni. E, per par condicio, anche vicino al Verde, dove si brucia il falò del Patrono, a sfidare in altezza il Campanone c’era lo scheletro di un moderno monumento al benessere: il centro commerciale.
Ora che sono tornato dalla Pianura e faccio il ragazzo di bottega da Pompeo, i cantieri sono terminati. Le saponette a buon mercato sono ben esposte nella vetrina del centro commerciale a fare concorrenza alle vecchie botteghe, il ponte sulla Nazionale è un triste parcheggio, il Chiosco guarda preoccupato Terrarossa e San Nicolò, due borghi che per secoli hanno visto passare eserciti e pellegrini, camion e ambulanze, montanari e medici e che d’ora in poi saranno isolati per sempre.
Quei due mostri sembravano essere stati messi proprio lì, vicino ai falò, non per una effettiva utilità, ma per soffocare quei falò. A significare che la vera luce non è quella antica del fuoco che unisce la gente attorno a sè, ma quella del profitto che divide e che il calore che scalda i corpi e rinfranca l’anima non è quello delle fiamme ma quello di una atrofizzante modernità.
Con questi pensieri la mattina di Sant’Antonio sono sceso dalla corriera vicino all’Ospedale. Era ancora buio. Ho attraversato Terrarossa deserta e scavalcata la galleria mi sono affacciato dal ponte: la brace ancora accesa, un fiasco poco lontano, un telaio di pali e una catasta di bochi erano il segnale. Con il cuore rinfrancato mi sono affrettato giù per il borgo: sotto la Crësa, una capanna di assi annunciava con largo anticipo che sì, anche ‘ntla Iara il falò avrebbe bruciato. Come sempre.
Hanno vinto loro: i falò. Con le loro fiamme resistono al finto progresso dei sottopassi e alla effimera prosperità dei centri commerciali che da vicino li sfidano; resistono alla stanchezza della città, all’emorragia dell’emigrazione, al perbenismo "pontificale" di chi guarda con distacco al successo dell’evento e alla franchezza popolana dei suoi artefici.
Il fumo non prevarrà sulle fiamme e sulle faville: conosciamo troppo bene la maestria dei fuochisti e l’amore gratuito per la loro missione, per credere che ciò avvenga. E se gli auspici per la città non sono dei migliori, sono altri i responsabili della coltre di fumo. Loro, i falò, ci doneranno ancora una volta due quarti d’ora di luce e di calore. Luce di speranza. Calore di vita. Al suono della campana.
(by Ottavio)
Un paio d’anni fa, durante le ferie d’agosto, venendo al mercato ci rimasi male. Sul Magra, poco lontano dal teatro di uno dei due falò, vidi grande un buco che andava sotto la ferrovia e la collina sventrata. Mi dicevano che costruivano un sottopasso. Per lo sviluppo dell’Ospedale e delle frazioni. E, per par condicio, anche vicino al Verde, dove si brucia il falò del Patrono, a sfidare in altezza il Campanone c’era lo scheletro di un moderno monumento al benessere: il centro commerciale.
Ora che sono tornato dalla Pianura e faccio il ragazzo di bottega da Pompeo, i cantieri sono terminati. Le saponette a buon mercato sono ben esposte nella vetrina del centro commerciale a fare concorrenza alle vecchie botteghe, il ponte sulla Nazionale è un triste parcheggio, il Chiosco guarda preoccupato Terrarossa e San Nicolò, due borghi che per secoli hanno visto passare eserciti e pellegrini, camion e ambulanze, montanari e medici e che d’ora in poi saranno isolati per sempre.
Quei due mostri sembravano essere stati messi proprio lì, vicino ai falò, non per una effettiva utilità, ma per soffocare quei falò. A significare che la vera luce non è quella antica del fuoco che unisce la gente attorno a sè, ma quella del profitto che divide e che il calore che scalda i corpi e rinfranca l’anima non è quello delle fiamme ma quello di una atrofizzante modernità.
Con questi pensieri la mattina di Sant’Antonio sono sceso dalla corriera vicino all’Ospedale. Era ancora buio. Ho attraversato Terrarossa deserta e scavalcata la galleria mi sono affacciato dal ponte: la brace ancora accesa, un fiasco poco lontano, un telaio di pali e una catasta di bochi erano il segnale. Con il cuore rinfrancato mi sono affrettato giù per il borgo: sotto la Crësa, una capanna di assi annunciava con largo anticipo che sì, anche ‘ntla Iara il falò avrebbe bruciato. Come sempre.
Hanno vinto loro: i falò. Con le loro fiamme resistono al finto progresso dei sottopassi e alla effimera prosperità dei centri commerciali che da vicino li sfidano; resistono alla stanchezza della città, all’emorragia dell’emigrazione, al perbenismo "pontificale" di chi guarda con distacco al successo dell’evento e alla franchezza popolana dei suoi artefici.
Il fumo non prevarrà sulle fiamme e sulle faville: conosciamo troppo bene la maestria dei fuochisti e l’amore gratuito per la loro missione, per credere che ciò avvenga. E se gli auspici per la città non sono dei migliori, sono altri i responsabili della coltre di fumo. Loro, i falò, ci doneranno ancora una volta due quarti d’ora di luce e di calore. Luce di speranza. Calore di vita. Al suono della campana.
(by Ottavio)
2 commenti:
Carissimo Ottavio,
sono felice di vedere un po' di coinvolgimento giovanile in questo spazio così misterioso...
Posso darti del tu?Immagino di sì visto che sei un giovane "apprendista".
Dici di essere tornato dalla Pianura, dove eri emigrato. Nel tuo articolo menzioni infatti una questione saliente del nostro desolato territorio: la mancanza di lavoro per i giovani e la conseguente emigrazione.
Anch'io, giovane studentessa, avverto il problema, ma per ora sono stata felice di aver avuto la possibilità di spostarmi e conoscere culture diverse dalla nostra.
Nel tuo articolo attacchi quei due monumenti rappresentativi di un "finto progresso". Concordo con te sul fatto che quelle due costruzioni non siano rappresentative di nulla (anche se il sottoppasso, nonostante TUTTO..., è l'attuazione di una norma contenuta in una direttiva comunitaria), ma non concordo sull'espressione di quella mentalità piccolo-borghese (e molto pontremolese) per cui ci si lamenta della mancanza di lavoro e di oportunità per i giovani ma poi non si fa nulla per cambiare le cose, e oltretutto ci si spaventa e lamenta quando c'è qualcosa di diverso e di nuovo.
Come avrai capito non mi riferisco in particolare a quei due "mostri", come li definisci tu. Il mio discorso è molto più generale.
Sarebbe giusto lamentarsi se questo gesto fosse accompagnato da un'analisi seria dei problemi e da una volontà forte di impegnarsi per cambiare quello che non ci piace e che ci infastidisce.
Altrimenti il gesto del lamentarsi è assolutamente fine a se stesso, espressione di un senso critico molto sterile,del tutto individualistico e quindi molto egoista.
A volte penso che se tutte le energie che le persone spendono nel lamentarsi dei loro problemi, fossero spese per organizzare delle azioni collettive che riguardino i problemi di tutti, STAREMMO TUTTI UN PO' MEGLIO!
Caro Ottavio, accosti con molto coraggio due elementi che nel nostro territorio non potranno mai coesistere: il vecchio e il nuovo. I falò, espressione folkloristica della tradizione, e due nuove costruzioni, espressione più che del "nuovo", di una demagogia del progresso.
A Pontremoli, finché ci si lamenterà sottovoce e senza mai alzare la testa, non cambierà mai nulla; continueranno ad essere preponderanti le corrotte forze della conservazione mascherate da moderne forze del progresso.
E noi giovani coninueremo a scappare, non tanto da un territorio senza opportunità lavorative,quanto da un territorio degradato eticamente e culturalmente.
Comunque in bocca al lupo per la tua collaborazione con Pompeo e continua a scrivere che ci fa tanto piacere!
Gentile lettrice, perbacco! certo che ci diamo del tu. E' insolito ma tutto sommato piacevole iniziare a fare l'apprendista barbiere e scoprire, dopo il lunedì di riposo, che la prima persona che entra in bottega sia... una ragazza! Da ragazzo di campagna quale sono quasi un pò arrosisco! Cerco di dissimulare l'imbarazzo rispondendo alle tue considerazioni.
Quei giovani che aprono la loro mente uscendo dalla Lunigiana, quando tornano a casa pronti a mettere a disposizione della comunità quanto di buono hanno appreso, spesso si scontrano con il conservatorismo, l'egoismo e il clientelismo. Elementi che tu segnali come frutto di una mentalità piccolo-borghese ma che a me sembra piuttosto tardo-feudale. Sai, i pontremolesi sono da sempre stati abituati ad avere un padrone: il feudatario, il podestà, il clero, il nobile, il proprietario terriero. E anche al giorno d'oggi, per certi versi, ne desiderano sempre uno: in grado di esercitare l'autorità e il potere, di segnare le strade da percorrere; un padrone a cui portare rispetto e riverenza, per poi ottenere una "racumandasiun" o un qualsiasi "piasér". Un padrone da non disturbare con idee nuove e da lasciare lavorare. Ci pensa lui. Poi, quando il padrone non è più tale, chi lo riveriva di più grida alla liberazione, qualcuno sommessamente abbassa lo sguardo e tira dritto, e tutti quanti, anzichè organizzarsi come dici tu... si mettono alla ricerca di un nuovo padrone. O più pragmaticamente delegano qualcuno a cercarlo per loro. Per chi, come te, auspica qualcosa di diverso, o per quei pochi o tanti che con fatica cercano una strada per fare stare meglio tutti, sono tempi duri, sotto il cielo di Pontremoli.
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