sabato 14 febbraio 2009

Il volo sbilenco


“Quando ormai si vola, non si può cadere più…
vedi tetti e case, e grandi le periferie…
e vedi quante cose sono solo fesserie”
(Gli Angeli,Vasco Rossi)

Dei lavori di Gino Monacchia, autore che è nato e vive a Succisa, non sapevo praticamente nulla quando, incuriosita, ho acquistato “Il volo sbilenco” e contemporaneamente “Mistero sull’Appennino”, affascinata come sono dai misteri. Figurarsi uno così vicino a noi! Beh, non mi ha deluso questa storia dei primi del ‘900 ambientata ai Brugnarei, un piccolo casolare più o meno tra la Cisa e il Brattello, da dove un giorno scompare il piccolo Dorino di due anni. E’ un crescendo di paura quello che avvolge tutto il paese, fino a quando miracolosamente il bimbo ricompare, sorridente, in buona salute, senza segni di sofferenza, come se qualcuno si fosse preso cura di lui. Il mistero non sarà mai chiarito.
Monacchia raccoglie e ci consegna una delle tante microstorie che sono la storia dei nostri paesi. Forse oggi una vicenda così andrebbe su “Chi l’ha visto”; allora la gente sussurrava della “donna sarvagda” o pregava Santa Zita, protettrice della valle. Un misto di sacro e profano, come erano allora le comunità, oscillanti tra una fervida religiosità e il timore dell’uomo nero, dell’orso peloso, dei fantasmi. “Bisogna pregare… o fare scongiuri” si diceva. Le forze occulte erano sempre in agguato. E ci sembra di vedere quei volti nelle veglie attorno al fuoco raccontarsi le paure e poi ringraziare devotamente la Santa, sorridente e rassicurante.
Più fantastici i racconti de “Il volo sbilenco”, che hanno per protagonista Gì (Gino?). Dall’aereo che si è deciso a prendere , scorge storie che da terra è impossibile vedere: Pontremoli ai tempi di Carlo VIII, una partita di calcio trasformata in guerra, automobilisti che strillano, il Palazzo dove tutti stanno imbullonati alla “cadrega”, ingessati con il sorriso fisso. E altre ancora, attraversate sempre da una vena ironica, che però non è distacco. Monacchia scrive piuttosto in maniera partecipe ed empatica, affettuosa, a tratti divertita. Il racconto più bello è però quello dei quattro ragazzi morti nella bufera di neve che li ha colti di sorpresa sull’Appennino mentre cercavano di tornare a casa per trascorrere con le famiglie il Natale. Era il 1921. Venivano da Parma dove erano andati a lavorare . E’ una storia di migrazione, di fame , di fatica, di speranza. Struggente. Protagonista la Montagna, che copre, che uccide, che nasconde (come Dorino). Madre e matrigna per la gente dei nostri paesi.
Quello di Monacchia è una sorta di “canzoniere”, un tributo alla propria terra, con le sue piccole storie viste attraverso un volo sbilenco. Che è, in fin dei conti, la vita. Sbilenca anch’essa. Ma ricca di cose straordinarie. “Però ti voglio dire…non basta avere gli occhi per vedere e le orecchie per sentire…bisogna metterli nella giusta posizione e prestar loro un’adeguata attenzione…hai capito?”Così dice Gì. Solo così si potrà vedere il cartello “Paese possibile dell’Immaginario”. Il paese dove tutti qualche volta ci rechiamo, per sopportare meglio il Paese reale in cui viviamo.
(by Annacarla)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

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Gino Monacchia ha detto...

Complimenti per aver saputo cogliere alcuni aspetti significativi dei testi analizzati.
L'autore.